sabato 22 agosto 2020

Claudio Cesare PRANDELLI


Cinque o sei anni fa, quando Damiani arrivò alla Juventus – racconta Alberto Refrigeri su “Hurrà Juventus” dell’ottobre 1979 –, andai a prenderlo in macchina all’Hotel Sitea dove era arrivato la sera avanti, per condurlo prima al campo a salutare l’allenatore, poi, insieme al massaggiatore De Maria, alle visite mediche. Appena lo vidi lo salutai con un cordiale «Come va Giuseppe?», dal momento che nell’almanacco e nello stesso cartellino il nome del giocatore era ben preciso. Damiani mi guardò divertito come avessi chiamato un altro: «Guardi che io sono Oscar, non Giuseppe», proseguendo poi con dettagliate spiegazioni sul come si erano svolte le operazioni all’anagrafe.
Nell’agosto scorso a Villar Perosa è capitata identica situazione al mio amico Gianni Giacone allorquando, mentre salutava i giocatori, al passaggio di Prandelli gli scappò un «In bocca al lupo, Claudio!». Lo stesso Prandelli non fece una piega, lasciando di stucco e meravigliato il buon Gianni, che non si rendeva conto della poca educazione del soggetto; tutto venne chiarito all’istante da Marocchino, il quale spiegò che se uno voleva salutare Prandelli non doveva chiamarlo Claudio bensì Cesare.
Presi nota della situazione, e mi ripromisi, alla prima occasione, di farmi spiegare dal titolare, così come avvenne con Damiani, il perché del doppio nome.
L’altro giorno, per le rituali quattro chiacchiere, ne ho parlato con Prandelli, e questa è stata la risposta: «A dire la verità, nei primi anni, quelli della gioventù, non ci capivo molto nemmeno io, dal momento che a scuola ero iscritto come Claudio, ma tutti, in famiglia e nel paese, mi chiamavano Cesare; un giorno chiesi spiegazioni, anche se non è che poi me ne interessasse molto, ma così, diciamo per curiosità; e venni a sapere che al momento della mia nascita, il nonno voleva chiamarmi Cesare perché quello era il suo nome, il papà invece insisteva per Claudio, cosicché in chiesa sono Claudio e in Municipio Cesare. Tutto qui».
– Lasciamo la storia dei nomi e passiamo ad alcune domande. Chi ti ha scoperto come giocatore?
«È stato Giuliano, un mio amico di Orzinuovi, che mi ha portato a Cremona e praticamente mi ha seguito fino a 18 anni. Poi sono passato sotto le cure di Rota, al quale devo molto perché mi ha preso giovanissimo e mi ha portato alla serie A in prima squadra».
– Che impressione ti hanno fatto i tuoi nuovi compagni?
«Ottima; più della metà li conoscevo, fra Atalanta e Nazionale giovanile; degli «Argentini» invece ho avuto una piacevole sorpresa, tutti cordiali e amiconi; sono stato accolto sin dal primo giorno, quello tremendo dell’emozione, con grandi pacche amichevoli sulle spalle; un ricevimento davvero principesco».
– Tornando ai tuoi vecchi allenatori, mi vuoi dire chi è quello che ricordi con più simpatia?
«Direi Nolli della Cremonese, una persona molto importante soprattutto sul piano umano, che ha voluto dire molto nella mia vita privata e calcistica, un vero amico che non è stato mai avaro di buoni consigli e al quale devo molto».
– Cosa ti riproponi nella Juventus?
«È una domanda impegnativa e non vorrei che la risposta fosse considerata scontata: in maglia bianconera, quella sognata per tutta la vita, per ora mi accontento di giocare il massimo di partite possibili, di amalgamarmi con i compagni; per il futuro vedremo; non mettiamo, come si dice, il carro davanti ai buoi».
– Cosa hai provato quando sei passato alla Juve?
«Ho vagato per tutta la sera come in trance; ogni tanto trovavo un amico che si complimentava con me, a casa il telefono squillava di continuo; sono andato a letto che era passata la mezzanotte ma mi sarò addormentato alle quattro. Il risveglio è stato una delle cose più belle della mia vita. Sai com’è quando fai un sogno da mille e una notte, ti svegli e ci rimani male perché capisci che era tutta una finzione, tutto inventato, tutto scritto sull’acqua; dopo tre minuti di schiaffeggiamenti vari per rendermi conto che non avevo sognato, ho potuto finalmente rilassarmi, guardarmi allo specchio e dire a me stesso: “Cesare, ce l’hai fatta!” Posso svelarti un segreto? Io adesso sono qui con te che parlo, che spiego tante cose, ma ti giuro che a volte non sono mica ancora sicuro di essere bianconero! Veramente un’esperienza spettacolosa e credo irripetibile!».
– Che carattere hai?
«Diciamo sul timido; poche parole, calmo, abbastanza sincero».
– Cosa vuol dire abbastanza?
«Che in questa mondo, anche se, bada bene, io non sono affatto d’accordo, occorre dire soltanto una parte di ciò che si pensa, per non essere fraintesi; quindi, se mi permetti il gioco di parole, io ho la sincerità di ammettere che non sempre sono sincero, specialmente nelle dichiarazioni alla stampa».
– Credi in Dio?
«Moltissimo, e sono anche praticante, anche se non certamente bigotto. Questa mia fede mi aiuta molto, specialmente a superare periodi difficili; alla sera, prima delle preghiere al buon Dio che mi ha protetto durante la giornata e al quale va sempre il mio ringraziamento (questo, veramente, sincero), rivado a quanto fatto durante il giorno, alle cose belle successe e a quelle meno belle, e ti assicuro che mi addormento sempre sereno, sicuro di un buon sonno ristoratore, nella certezza di non aver inflitto male a nessuno e di aver cercato, nei limiti delle mie possibilità, di avere fatto interamente il mio dovere».
– Sei fidanzato?
«Sì, con Manuela».
– Se fra qualche anno avrai un figlio, lo indirizzerai alla carriera di calciatore?
«Impossibile dirlo fin da ora, occorrerà vedere innanzitutto se avrà le doti; poi eventualmente sarà lui a decidere; da parte mia non ci sarebbero impedimenti di sorta».
– Cosa pensi di queste contestazioni?
«Le capisco fino a un certo punto, cioè fino a quando, e purtroppo succede parecchie volte, si passano i limiti del buon gusto; allora ogni corteo, in partenza giusto per giuste rivendicazioni, diventa un focolaio di violenza».
– Sei mai stato espulso?
«Lo scorso anno a San Siro; Beccalossi, di cui sono amicissimo e che è venuto spesse volte a casa mia, è entrato piuttosto duro; io ho fatto un gesto come dire: potevi anche farne a meno! L’arbitro, che era un po’ distante, ha creduto che volessi dargli un pugno, e mi ha mandato negli spogliatoi. Dove al termine della partita ci siamo spiegati e lui stesso ha ammesso che non esisteva colpa da parte mia. Ma intanto la domenica successiva dovetti vedere la partita dalla tribuna».
– Ritieni giusto per un calciatore sposarsi giovane?
«A me personalmente non è che piaccia molto, però le statistiche dicono che questi sono i matrimoni migliori, specie per i calciatori, che trovano nella tranquillità della casa le forze per emergere in campionato, o almeno per aiutarsi moralmente».
– A Torino dove vivi?
«Insieme a Tavola in un appartamentino vicino allo stadio».
– In famiglia quanti siete?
«Mia mamma e due sorelle, di 15 e 18 anni».
– Se vincessi lo scudetto, cosa faresti?
«Non si può dire adesso; anche lo scorso anno a Bergamo, si facevano tanti progetti se ci fossimo salvati, poi siamo finiti in B e tutto è tramontato. Cominciamo a vincerlo, poi vedremo!».
– Le limitazioni maggiori per un giocatore quali sono?
«Per me non molte; diciamo che se non giocassi al calcio farei un po’ più tardi alla sera con gli amici, tutto qui; però vuoi mettere le soddisfazioni che ti dà il calcio? Ti ripaga di tutti gli eventuali sacrifici!».
– Un attore preferito?
«Dustin Hoffman».
– Un autore preferito?
«Sto leggendo Robins, uno scrittore abbastanza moderno».
– Un cantautore?
«Tutti sono buoni, a patto che abbiano una buona canzone; io do più importanza alla musica che al testo; cerco insomma di seguire più il motivo delle parole».
– Un’ultima cosa, Cesare; se un regista ti chiamasse per un film, quale parte ti potrebbe assegnare? Prandelli si accarezza il mento in attesa di darmi una risposta mentre entra nella stanza il suo amicone Tavola, tutto preso dalla sua congiuntivite che lo fa chiudere gli occhi.
«Diciamo una parte in un film brillante».
«Macché brillante», ribatte Tavola, «con quella faccia lì, se ti metti un paio di baffi, puoi benissimo fare Zorro; uno Zorro bianconero beninteso…».
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Dici jolly e pensi al generico, al professionista che è in grado, più o meno, di ricoprire qualsiasi compito. Per Prandelli, tutto ciò è vero, ma c’è dell’altro e non va sottovalutato. Cesare è, nel suo genere, uno specialista: ci vuole, infatti, un temperamento particolare, unito a doti fisiche tutt’altro che comuni, per essere all’altezza del compito abitualmente svolto da Prandelli. Il Trap sa di poter contare sempre su di lui, ma il come e il quando, sono sempre legati, per forza di cose, all’andamento della partita. Calarsi nella realtà di una gara, spesso delicatissima, in frangenti magari burrascosi, è roba da specialisti, senza alcun dubbio.
È pedina preziosa sia per la difesa sia per il centrocampo, sa disimpegnarsi sull’uomo e anche nelle vesti di libero ed è inoltre discreto propulsore. In una Juventus di tutti campioni deve, comunque, fare panchina e anche nell’ingrato ruolo di riserva, sa disimpegnarsi con dignità e grande senso di responsabilità, trovandosi al meglio della condizione ogni qualvolta Trapattoni decide di avere bisogno del suo apporto.

FERRUCCIO CAVALIERE, “LA STAMPA” DEL 2 AGOSTO 1979
Trapattoni, è logico, ha in mente la formazione, ma si rifiuta di ufficializzarla per non creare le solite beghe da ritiro. Il mese di agosto sarà comunque, per lo schieramento, un periodo sperimentale. Non è da escludere, infatti, che il tecnico attui in seguito delle varianti all’assetto di squadra, se dovessero verificarsi degli scompensi tali da modificare l’impostazione di base. L’undici tipo vede comunque l’innesto di Claudio Prandelli a centrocampo. Trapattoni lo descrive così: «Un ragazzo dal gioco ordinato, un tipo dinamico, non molla mai l’avversario. Certo che giocatori grintosi come Furino non esistono più. È un mediano a sostegno che mi ricorda un po’ il Bedin prima maniera. Sarà utile soprattutto nella zona arretrata».
Prandelli potrebbe, in caso di necessità, tornare utile nel ruolo di libero. Risponde con tono riflessivo alle domande. «Non so ancora i compiti – precisa – che l’allenatore intende affidarmi, ma non mi spaventa l’idea di fare il titolare. In fondo ritengo che la squadra non avrà eccessivi problemi nell’esprimersi. La Juventus con tanti Nazionali non è un’incognita, ma una realtà, un complesso di campioni. Il primo Tardelli è stato il mio modello, un atleta eclettico. Virdis? L’ho avuto con me nella Militare. Saprà riprendersi. Non può aver dimenticato da un momento all’altro la professione».
Con Bodini, Marocchino e Tavola giunge dalla disperata stagione atalantina. La spiega con la serie di disgrazie che sono piovute sul clan bergamasco, ha frasi di stima per Rota, per i compagni che lo seguono in questa esaltante avventura. «Con Tavola è facile giocare. Si smarca sempre, garantisce un continuo movimento anche quando non è in possesso di palla. Saprà rimpiazzare Benetti, un uomo di valore. Insieme porteremo una ventata di giovinezza al centrocampo, una zona ora forse meno potente, ma in grado di sviluppare maggior velocità».
La concorrenza nel ruolo lo stimola, il calcio rappresenta la sua vita. Geometra, fidanzato con una studentessa, Manuela, confessa di avere come evasione dall’ambiente l’interesse della lettura. «Per tutto il resto mi manca, al momento, il tempo. Ho cercato di arrivare in alto nel football a diciotto anni, quando mio padre è mancato. Bravura e fortuna me lo hanno permesso. Adesso intendo giocare, ho bisogno di non cambiare ruolo, di annullare quei momenti di indecisione che ogni tanto mi assalgono sul campo quando devo controllare un avversario abile. Sono insomma soltanto agli inizi della vera carriera. Non è semplice rimanere al vertice per lungo tempo. Qui sto bene, anche se la preparazione è più pesante dì quella che fa svolgere Rota. Con Trapattoni si suda e si soffre, ma gli allenamenti, spiegati nei dettagli, sono istruttivi».
Acquistato un paio d’anni fa, Prandelli ha saputo attendere il trasferimento in un grande club, non ha nel frattempo mutato abitudini e comportamento. Adesso corre in bianconero e dice con simpatico sorriso, ma senza scherzare: «Il domani dipende soprattutto da me. Alla Juventus gli esempi non mancano. Guardo Furino in allenamento e mi stupisco perché non molla mai».
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Nelle 6 stagioni in bianconero totalizzerà 139 gettoni di presenza e metterà il sigillo a 2 gol in Coppa Italia. La professionalità di Prandelli è premiata dagli scudetti 1981, 1982 e 1984, dalla Coppa Italia 1983, dalla Coppa delle Coppe 1984 e dalla Coppa dei Campioni 1985. Lascia la Juventus, per ritornare all’Atalanta, nell’estate del 1985.

DARIO CRESTO-DINA, DA REPUBBLICA.IT DEL 27 FEBBRAIO 2008
Questa è la storia di un uomo e una donna. Come ce ne sono tante. È la storia di un amore. Come a volte esistono. È la storia di un dolore. Come quelle che prima o poi ci sbattono addosso perché non può esserci una vita senza dolore. L’uomo si chiama Cesare Prandelli. Ha cinquant’anni. Alla fine della terza media voleva iscriversi al liceo artistico, si è ritrovato invece geometra perché la mamma gli raccomandava: il diploma, Cesare, il diploma... Voleva diventare architetto perché gli è sempre piaciuto pensare, creare, costruire qualcosa. Anche solo un’idea. Ha fatto invece il calciatore. Ha vinto con la Juventus qualche scudetto e una coppa campioni, si è distrutto le ginocchia e ha smesso presto, senza barare, a trentadue anni. Oggi è l’allenatore della Fiorentina, ma qui se potessero lo farebbero sindaco, presidente di tutti i posti in cui è previsto un presidente e, perché no?, persino papa e santo, naturalmente subito.
La donna si chiama Manuela Caffi, è sua moglie. È morta all’ora di pranzo del 26 novembre dell’anno scorso. Aveva quarantacinque anni. Quel giorno era un lunedì, il giorno in cui i calciatori e gli allenatori si riposano. «Fino alle dieci della domenica era lucidissima. Io e i miei figli durante le ultime ore ci siamo messi nel letto con lei. L’abbracciavamo, la accarezzavo, le parlavamo di continuo. I medici della terapia del dolore, che lei chiamava i suoi angeli, ci hanno spiegato che i malati terminali perdono per ultimo il senso dell’udito, ma riconoscono solamente le voci dei familiari, quelle degli estranei si trasformano in un rumore metallico. Porto dentro di me le sue ultime parole. Ma non riesco a dirle, a farle uscire. È troppo dura».
Dopo tre mesi è la prima volta che Cesare Prandelli accetta di raccontare la sua Manuela. Nella sala riunioni della sede della Fiorentina. Una t-shirt bianca e un maglione arancione, il fisico da ragazzo, lo sguardo sulla fede che porta al dito, un bicchiere d’acqua sul tavolo che a un tratto si rovescia e lui va nello sgabuzzino, prende uno straccio e asciuga il pavimento mettendosi in ginocchio. Si deve pur ricominciare, da qualche parte, in qualche modo.
– Potremmo partire dalla terra, la sua. Da Orzinuovi, provincia di Brescia.
«Di lì si parte e lì si torna. Dove sono nato e cresciuto, dove vivo ancora nella casa dei miei. Papà è morto che avevo sedici anni, mamma sta con me. A Orzinuovi sono Cesare e basta. C’è la piazza Vittorio Emanuele, una bella piazza con i portici. Manuela l’ho conosciuta là, al bar, una domenica pomeriggio. Giocavo in B con la Cremonese, tornavo dalla partita, avevo voglia di una cioccolata calda. Lei era con una sua amica, ci siamo soltanto guardati, ci siamo piaciuti subito. Il giorno dopo con una scusa sono andato a prenderla a scuola. Avevo diciott’anni, lei non ancora quindici. Non ci siamo più lasciati».
– Quando vi siete sposati?
«Nell’82. Ero alla Juve. I miei testimoni sono stati Antonio Cabrini e Domenico Pezzolla, mio compagno a Cremona. Ora fa l’ambulante, vende formaggi».
– Mai una crisi, mai un tradimento?
«In trent’anni abbiamo litigato una volta sola, colpa di una racchetta da tennis. Se mi chiede se le ho messo le corna le rispondo di no. Se per tradimento invece intende la mancata condivisione di una scelta e di una idea, allora le dico di sì, che a volte credo di averlo fatto. Nell’educazione dei figli, per esempio. Su questo piano sarò sempre in difetto nei confronti di mia moglie».
– Padri e figli: che cosa ha imparato dai suoi genitori?
«Da mio padre il rispetto per chi lavora, spero di averlo fatto mio. Da mia madre la fisicità dell’amore, il non vergognarsi di volere bene. Dimostrarlo con il cuore, la testa, le mani».
– E che cos’è l’amore?
«Credo ci siano diversi tipi di amore. Quello per una donna, quello per i figli, quello per gli amici. Ho scoperto che molte persone hanno paura di amare, hanno paura di vivere l’amore. Perché in amore devi dare, devi essere altruista. Forse è più facile non amare. Siamo spesso prigionieri del nostro egoismo».
– Che cosa le ha insegnato Manuela?
«Tutto. Ho sempre le tasche vuote, non un soldo. Mai usato il bancomat, i soldi me li dava lei. Qualche giorno fa sono stato costretto a farmi prestare cinquanta euro da un collaboratore della società per fare benzina. Non mi sono ancora abituato... Manuela mi ha insegnato a usare le parole. Mi diceva: Cesare, la cosa più importante è sapere che cosa si vuole. Domandarselo e avere il coraggio di darsi le risposte. Quando sono diventato responsabile del settore giovanile dell’Atalanta mi sembrava di toccare il cielo con un dito. Poi mi offrirono il Lecce. Le dissi: mi piacerebbe provare, ma solo se tu vieni con me. I bambini erano piccoli. Andiamo, mi rispose, ma promettimi che terrai i nostri figli fuori dal mondo del calcio».
– A lei che cosa non piace di questo suo mondo?
«L’esasperazione, le polemiche, i processi, l’arroganza, la stupidità, l’oblio. Quando giocavo io ci divertivamo di più, tra compagni di squadra ci si frequentava dopo le partite, gli allenamenti. Mischiavamo le nostre solitudini. Oggi i calciatori lo fanno molto di meno. Questo mondo ha dato lavoro a tanti, ma tanti si prendono troppo sul serio. Eppure fai un mestiere che ti piace, ti danno un sacco di soldi, sei un privilegiato. Vivi una vita che non è normale. Se ho una qualità è quella di saper scegliere i miei abiti mentali. Non posso assumere un modo di essere che non è il mio. Non riesco a fingere, a mordermi la lingua, a mettere su il disco dell’ipocrisia».
– Parlavate spesso di politica, lei e sua moglie?
«Poco. Ho votato la sinistra più di una volta, ho avuto a un certo punto simpatia per il centrodestra. Sono stato un ondivago, come vede. Vorrei una politica liberata dall’ideologia. Non mi chieda di più. Non sono preparato».
– Lei è ricco?
«Sto bene, molto bene. Ma la ricchezza non mi interessa. Mi preme la tranquillità economica dei miei figli. Nicolò ha ventitré anni, studia da manager dello sport. Carolina ne ha ventuno, fa lettere all’università e adora la danza. Non voglio diventare ricco. Voglio cercare di vincere qualcosa, questo sì».
– Mi hanno raccontato che prima di prendere Capello, la Juventus la voleva come allenatore. Di fronte alla scrivania di Moggi lei sparò una richiesta altissima, Moggi si alzò, le strinse la mano e le disse arrivederci. È vero?
«Sì. Per la Juve avrei firmato in bianco, ma sapevo che non mi avrebbero preso. Chiesi quella cifra per andare a scoprire le loro carte. Non mi presero, come avevo previsto».
– Quando si è ammalata Manuela?
«Sette anni fa. Allenavo il Venezia. Un nodulo a un seno. Sembrava routine. Operazione a Brescia. Meno di due anni dopo un problema a un linfonodo. Nuova operazione, parecchie metastasi, chemioterapia. Un disastro».
– La Roma per qualche mese, poi le dimissioni. Perché?
«Manuela voleva stare a casa. Facemmo un patto, le dissi che se le cure fossero state invasive sarei stato ogni minuto al suo fianco. Era lei la mia priorità. La sua vita era la mia vita. Tornai a Orzinuovi. Molti si sorpresero, per me invece fu una scelta naturale. Il calcio a volte ha paura della normalità».
– C’è stato un momento in cui ha creduto che Manuela si sarebbe salvata?
«Sì, dopo Parigi e un interminabile calvario di terapie chemioterapiche. I medici ci diedero molte speranze. Lei stava meglio. Venimmo a Firenze. Per quasi tre anni le cose sono andate bene. La scorsa primavera la situazione è improvvisamente precipitata, a maggio il tumore ha colpito il fegato. È stato l’inizio della fine. Da allora la lotta è stata soltanto contro il dolore, un dolore devastante, non più contro la malattia».
– A chi altri avete chiesto aiuto in questi anni?
«A Dio. Siamo andati a Spello, da frate Elia. Lunghe, dolcissime chiacchierate. Sedute di preghiera. Emozionanti, commoventi. Manuela, io, i due ragazzi. Io ho la fede, l’abitudine alla preghiera. Lei era invece un po’ come San Tommaso, ma l’incontro con frate Elia è stato straordinario. L’ha cambiata. Credo che senza di lui la mia Manu sarebbe morta prima».
– Ora lei come sta?
«Sto. Quasi tutta la mia famiglia è venuta a Firenze, respiro quando sono con Carolina e Nicolò. Cerchiamo di capire assieme come ricominciare. Mi danno sollievo il campo, i ragazzi, le partite. Da solo mi sento sperduto».
– E crede che rimarrà da solo?
«Adesso le posso solo rispondere di sì. Non riesco a immaginarmi con un’altra donna accanto. Penso che una persona che abbiamo tanto amato continui a vivere dentro di noi fino a quando moriremo a nostra volta».
A Firenze la strada principale che conduce allo stadio si chiama Viale dei Mille. Per un lungo tratto a ogni albero è appeso un cartellone dell’Associazione tumori della Toscana. Raffigura Cesare Prandelli sul prato del campo. È in giacca blu e cardigan viola. Non sorride. Con il braccio destro saluta i tifosi della curva Fiesole. È il suo modo di dire grazie.




1 commento:

Giuliano ha detto...

Mi manca molto, anzi a dire il vero ogni tanto mi stupisco ancora di non vederlo entrare in campo nel secondo tempo...
Sono contento che abbia fatto una bella carriera come allenatore.