giovedì 26 marzo 2015

Giovanni MAZZONIS


Non sono stati solo i grandissimi campioni – scrive Alberto Fasano su “La storia della Juventus” di Perucca, Romeo E Colombero – a realizzare le strepitose imprese sportive della Juventus nell’arco della sua storia quasi centenaria. Ci sono stati anche importanti dirigenti che, con il loro acume, la saggezza, la tempestività, il coraggio e la disciplina, hanno saputo portare la società al vertice dei valori nazionali ed internazionali.
E se il grande artefice delle attuali fortune della Juventus può essere facilmente individuabile in Giampiero Boniperti, l’uomo che per primo fece conoscere a tutti l’inimitabile stile della società e della squadra bianconera fu senza dubbio Giovanni Mazzonis. Pur lavorando con dedizione ma nell’ombra, ed arrivando solo di sfuggita alla presidenza.
Giovanni Mazzonis apparteneva ad una signorile famiglia torinese: era il primo di tre fratelli; gli altri due si chiamavano Ernesto e Gigi. La famiglia Mazzonis abitava in pieno centro di Torino, in corso Vittorio Emanuele angolo via Parini, a meno di cento metri dal Liceo Massimo D’Azeglio. E Giovanni fu appunto uno dei ragazzi del D’Azeglio che tra i primi si unì agli altri studenti che avevano fondato la Juventus; tra i primi a prendere a calci un pallone sui verdi prati di Piazza d’Armi. Nella stessa casa dove abitavano i Mazzonis, c’erano anche i fratelli Nando ed Umberto Nizza. Era un rione… zeppo di juventini: tutti amici, tutti entusiasti, tutti decisi a fare grande quella società nata da pochi anni.
Quella dei Mazzonis era una famiglia piemontese benestante: aveva almeno tre grosse e importanti manifatture, tre collaudate ed avviatissime aziende tessili, una a Palafrera, l’altra a Luserna ed una terza a Pont. Il lavoro in ditta era per tutti la cosa più importante, ma anche la Juventus occupava un posto di rilievo nelle quotidiane occupazioni dei Mazzonis, che avevano anche un ufficio in Torino, precisamente in via San Domenico. E da quell’ufficio dovevano partire molte direttive che fecero grande la Juventus.
Quando, il 24 luglio 1923, Edoardo Agnelli decise di prendere la presidenza della Juventus (con l’avvocato Olivetti presidente onorario) alla vicepresidenza rimase l’avvocato Enrico Craveri presto raggiunto anche da Mazzonis. Non è facile elencare qui le numerose qualità di quell’impareggiabile dirigente. L’ho conosciuto negli ultimi dieci anni della sua permanenza alla Juventus ed il mio giudizio non può che essere incompleto. I vecchi juventini parlano di lui come dl un uomo di costumi molto rigidi, nei confronti degli altri e soprattutto nei confronti di se stesso. Quando impartiva direttive, sia in campo industriale che sportivo, non ammetteva che i suoi ordini venissero trasgrediti. Era un autentico signore, educato e di grande cordialità; ma se qualcuno gli pestava i piedi, si faceva sentire, con quel suo vocione tuonante, capace di durissime reprimende.
Anche Edoardo Agnelli rimase immediatamente affascinato dalle qualità del barone Mazzonis e lo volle come vicepresidente, affiancato da Craveri. In effetti l’illuminata gestione del figlio del fondatore della Fiat non avrebbe potuto trovare un collaboratore più utile di questo signore tutto d’un pezzo, deciso a mantenere alla Juventus l’antica atmosfera, che era stile di vita e saldezza morale, prima ancora che eccellenza sportiva. Ma Giovanni Mazzonis, uomo estremamente pratico, si adoprò per portare la squadra bianconera ai vertici dei valori. Il suo lavoro fu meticoloso, tenace, preciso, inarrestabile, assieme a quello di Craveri.
Sul barone Giovanni Mazzonis si raccontano molti gustosi episodi, tutti esempio di rigidità morale e di inflessibile disciplina. Uno per tutti. Dopo una vittoria molto importante del campionato 1932-33, il presidente Edoardo Agnelli aveva improvvisato un premio speciale per i giocatori di duemila lire ciascuno. Insieme al concreto riconoscimento, pagato di tasca propria ed offerto con un garbato discorso, il presidente aveva raccomandato il silenzio, cioè che la cosa restasse tra loro, dato che il barone Mazzonis, momentaneamente fuori città, non era stato consultato in proposito. Al momento parve che l’iniziativa presidenziale fosse passata senza turbare i criteri di austerità educatrice dell’ignaro e severo vicepresidente, che, d’altra parte, non dava a vedere in alcun modo di esserne a conoscenza. Alla fine del campionato, però, giunto il momento della riscossione del premio, le famose diecimila ire, i giocatori, allibiti, se ne videro consegnare soltanto otto dal «barone di ferro», il quale dichiarò di aver considerato un anticipo le duemila lire a suo tempo donate dal presidente. E questi, a sua volta, fu cortesemente invitato a non prodursi in simili munificenze, qualora si fossero presentate altre occasioni di gaudio sociale!
Così era fatto Giovanni Mazzonis, dirigente esemplare, uomo integerrimo e severo. Un uomo così non poteva fare a meno di entrare a far parte in modo sostanzioso della società. Infatti a quei tempi il bilancio della Juventus era diviso in sedicesimi: tre sedicesimi li possedeva Edoardo Agnelli, due sedicesimi Giovanni Mazzonis, un sedicesimo ciascuno avevano Gualco, Monateri, Valerio Bona, Ajmone, i fratelli Nino e Carletto Levi, Vaciago.
Il barone dirigeva personalmente la campagna acquisti della squadra: era intelligente, capiva di calcio, era tempestivo e oculato. Non sbagliò quasi mai una mossa. Ed i risultati si videro. Per cinque anni consecutivi.


VLADIMIRO CAMINITI
Curvo davanti al caminetto, sgangherato dalla vecchiaia, un paio di ispidi baffi e i capelli bianchi, quell’uomo era Giovanni Mazzonis, vice presidente della Juventus tutta d’oro.
Si spacciava per barone di Pralafera e lo era forse per lontane viuzze di sangue. Nel tempo degli orpelli e delle svenevolezze, aveva lui tutte le responsabilità di conduzione della Juventus di Edoardo Agnelli.
Nella Juventus dei primi miti, della ricchezza in terra, del consenso fascista, le facilitazioni in nome della razza guerriera, parvegli giusto mettersi uno stemma sulla testa. In realtà, era barone e patrizio per sapere calcistico. La potenza della società bianconera nacque pure dal suo saper fare, dal suo buon senso piemontese ligio ma non bigio, una oculatezza viperina, la sua voce con tutte le smorzature e gli acuti, parlava basso e forte, dolce e duro, convinceva un Cesarini a rigar diritto.
Era intransigente, ma anche cauto obiettivo discreto diligente bonario comprensivo. Un dirigente di calcio che si rispetti, deve essere tutto e niente, deve essere un intrico e un inghippo, come carattere e natura.
Nel 1966, ormai occupava il tempo a spegnersi come candela.
Cercai di farlo appartare con se stesso e di parlare con lui come con gli altri personaggi antichi. Ma risultava più vinto di tutti. Parlavo con un fantasma. Ma i fantasmi parlano ed infatti quel vecchio mi disse parecchie cose, le condensai in appunti che restituisco e sono inediti. Né mi risulta che, prima di morire, sia stato avvicinato da altri giornalisti.
Il fatto è che vengono considerati quelli che sembrano, si considerano grandi i presidenti, si ignora la realtà del lavoro dei dirigenti veri. Importa mettere sul giornale i divi e il censo, raccontare Edoardo, le sue amicizie, i suoi hobbies.
Giovanni Mazzonis dedicò tutto se stesso alla squadra.
Amministrava, ammoniva, inseguiva, blandiva pure, dovunque, comunque e sempre, lui c’era. Litigò con tutti e poi ci fece pace. Non fu amato veramente da nessuno e peranco odiato. Poi, dopo tutto questo carnevale, povero come un cane e solo, si avviò a morire.
«Ho lasciato la Juve. Mi hanno estromesso nel 1940. Ero stato fatto presidente nel 1935, ma de la Forest, che era fascista, ricevette dal federale di Torino Gazzotti la proposta di formare una direzione tutta fascista. E così fu. Io ero entrato nella Juve quando giocavamo al vecchio Motovelodromo, in corso Re Umberto, era il 1908-‘09...».
«Come era Torino allora?»
«C’erano i tram a cavallo, era molto raccolta, con un certo livello di cultura, teatrale soprattutto. Studiavo al Liceo d’Azeglio, un nido juventino, dopo la lezione, si andava tutti i giorni in piazza d’Armi, Malvano, Armano, Mazzia, Donna, Forlano, Goccione, Barberis, Colombo, Mastrella e altri. Ci si riuniva al bar Fiorina. Dopo la prima grande guerra, diventò presidente Corrado Corradino, un poeta, nazionalista, professore di letteratura. Prima di lui era stato presidente Dick, uno svizzero, direttore della Manifattura Pellami e Calzature, si giocava al Motovelodromo. Era un uomo molto dinamico ed autoritario».
«Lo stesso che poi fondò il Torino...».
«Aveva portato nella Juventus giocatori svizzeri, in realtà erano impiegati della sua ditta. Erano bravi giocatori e sollevarono la Juventus come tono di gioco. Bollinger, Diment, Square specialmente. Quella fu una Juventus dallo spirito familiare, di amici, che coltivava l’amicizia anche in campo. Ma lui cambiò ad un certo punto, voleva tutti impiegati della sua ditta in formazione e noi del D’Azeglio cominciammo a vederlo male. Lo cacciammo perché voleva guidare la Juve da tiranno. Noi la volevamo come una famiglia e ci ribellammo alle sue imposizioni. Il contrasto tra lui e noi, soprattutto con Varetti, Donna e Malvano, fu violento. Ed allora lui ha fondato con l’oculista dottor Secondi il Torino, portandoci i giocatori della sua ditta... La Juventus, stremata sportivamente, senza risorse finanziarie, senza campo, traversò un momento duro. Abbiamo dovuto farci un campo, dove oggi c’è lo stadio, con mille e cinquecento lire facemmo cintare il rettangolo con pali di legno. Fu una Juve tutta italiana, prima con Varetti poi Ubertalli, poi con Hess presidente, io purtroppo ero molto impegnato con la mia ditta a Torre Pellice e inoltre è scoppiata la guerra. Dal 1914 al 1925 non mi occupai più della Juventus...».
Raccontava con voce grave, curvo davanti al caminetto. Non sorrise mai. Esponeva cose vecchie, inutili.
«Ho giocato parecchi anni, in quella Juve familiare. C’era Borel padre che aveva un negozio di oggetti da fumatore, in via Roma vecchia... Finché Dick non cominciò a pretendere, c’era armonia tra tutti noi, impiegati e operai, si giocava veramente per divertirsi... Come sia avvenuto che nel 1925 mi venissero affidate tutte le responsabilità non lo so. Io, prima, nel ‘25, ero semplice consigliere. Penso che sia stato Edoardo Agnelli al quale avevo più volte esposto le mie idee. Ero tornato comunque con piacere nella società. Tutto era cambiato rispetto ai tempi di ragazzo. Edoardo Agnelli fu un presidente grande per la Juve, perché signore, mecenate. Non si occupava a fondo della squadra, aveva capito però lo spirito juventino, il nostro spirito di famiglia. Tutti i giocatori per i quali ero proposto mi obbedivano. Anche il buon Cesarini, generoso, simpaticissimo, ma indisciplinato in sommo grado, sia nella vita privata sia sul campo di gioco. Il suo gioco era estroso, personale. Non sentiva le disposizioni che poteva dare Carcano. Lo ammansii io. Io lo acquistai attraverso i fratelli Rava che vivevano in Argentina. Feci tutto per lettera. Una volta lo sorpresi che faceva una orgetta. Lo minacciai. Mi toglie la multa, disse accompagnandomi alla porta, se domani faccio due gol? Prima falli, gli dissi. Li fece. La multa non gliela tolsi».
«Come era quella Juve?»
«Combi, forse, era di una levatura superiore agli altri. Juventino di nascita come potevo essere io».
Parlando si era come animato, le labbra gli si erano fatte rosse, intravidi un dentone.
«I cinque campionati furono tutti meritati. Li vincemmo perché avevamo una squadra eccellente. Il gioco del calcio si deve fare naturalmente. I due cavalli da tiro sono le due mezzeali... È stato sempre così... Poi c’era un ambiente veramente democratico che metteva ciascuno a suo agio... La forza e la gloria della Juventus è in questo suo senso di famiglia che c’era... Eravamo tutti amici allora... Debbo dire che lavoravano con me Monateri, Craveri, Levi, Tapparoni... Io poi sono stato estromesso...».

1 commento:

Andrea ha detto...

stento a credere che personaggi di questa caratura siano finiti nel dimenticatoio e conosciuti /ricordati da pochissimi; rappresenta la vera essenza di quello che chiamavamo (ahimè) stile juvenuts