martedì 31 marzo 2020

Alessandro DAL CANTO


La sua carriera professionistica inizia nelle file della Juventus dove, nelle stagioni 1992-93 e 1993-94, disputa tre partite in Serie A esordendo il 14 marzo 1993 in Brescia-Juventus 2-0. Le prospettive sembrano buone ma, nell’estate del 1994, la Juventus lo lascia partire. Inizia quindi un lungo peregrinare in lungo e in largo per la penisola.

MAURIZIO TARNAVASIO “HURRÀ JUVENTUS” DEL MAGGIO 1993
La prima volta che incontrammo Alessandro Dal Canto fu poco più di due anni fa, in occasione di un Piacenza-Juventus del campionato Allievi svoltosi in una fredda e nebbiosa domenica mattina tipicamente padana. A quell’epoca il non ancora sedicenne ragazzo della provincia di Treviso veniva schierato come terzino sinistro.
Nella stagione successiva Alex si mette in luce come ultimo uomo della difesa, ruolo ricoperto anche all’inizio di questa stagione, quella della promozione nella formazione Primavera guidata da Antonello Cuccureddu. Ebbene, dobbiamo dire che di Dal Canto colpiscono sin da subito le doti non facilmente reperibili in calciatori così giovani: la grande grinta e una serietà non comune lasciavano presagire già allora una più che promettente crescita globale, se solo il talento avesse potuto essere indirizzato verso i canoni di un calcio un po’ più maturo. E così puntualmente è stato: in soli otto mesi il riccioluto (e in apparenza ombroso) Alessandro ha compiuto quasi senza accorgersene un doppio salto in avanti. Non è, infatti, proprio da tutti ritrovarsi a giocare in Serie A dopo una così veloce trafila nelle giovanili. «In effetti, il salto è stato davvero improvviso, ma anche abbastanza indolore: la naturale soggezione che all’inizio avevo nei confronti dell’apparato della prima squadra è andata via via scomparendo. E se la scorsa estate mi dava da pensare persino il passaggio dagli Allievi alla Primavera per via dei diversi requisiti fisici e di esperienza richiesti nella categoria superiore, il fatto di ritrovarmi da novembre così in alto mi pare veramente fantastico: la mia grande fortuna è stata quella di essere visto bene da Trapattoni durante le partitelle del giovedì».
Racconta qualcosa di te, in modo che gli amici bianconeri possano cominciare a conoscerti. «Sono nato a Castelfranco Veneto il 10 marzo 1975 e ho iniziato a giocare seriamente a calcio a otto anni nel Giorgione. Verso i tredici sono passato al Montebelluna, dove per due stagioni consecutive sotto la guida di Cavasin, ora alla guida degli Allievi bianconeri, sono approdato alle finali nazionali della categoria Giovanissimi, e nella stagione 1990-91 finalmente l’arrivo in Juve. Riguardo alla scuola, sono iscritto come privatista al quarto anno di Ragioneria, e conto di diplomarmi in tempo; per quanto concerne invece il carattere dicono che sia piuttosto buono e altruista ma poco compagnone, tanto da sembrare a qualcuno un po’ chiuso».
E com’è l’Alessandro Dal Canto calciatore in ascesa? «Credo un buon apprendista, e non lo dico per falsa modestia. Se forse sono grintoso al punto giusto ed equilibrato tatticamente, devo ancora migliorare notevolmente il destro e giungere a una formazione calcistica il più completa possibile. In fin dei conti soltanto l’altro ieri giocavo con i ragazzi come me. Oltretutto so la mia situazione attuale è estremamente aleatoria: sono salito su un trampolino senza aver raggiunto ancora alcuna meta, nonostante qualche apparizione in Serie A. Le mie motivazioni a emergere sono assolutamente integre, se non addirittura aumentate rispetto a qualche mese fa, e mi dispiace vedere che qualche coetaneo di altri club si monti la testa per così poco».
In tema di sincerità: dopo tre anni di Juve quali sono le tue impressioni sulla società bianconera vista dal di dentro? E su Torino? «Mi sembra sinceramente davvero bene organizzata sotto ogni punto di vista, con un settore giovanile in fermento.  La città invece non mi fa impazzire, in quanto troppo fredda e impersonale per il mio carattere. Ma dal momento che sono da sempre un tifoso bianconero “doc” la scelta di venire qui si è dimostrata quanto mai felice».
Come ti è sembrato di primo acchito il professionismo visto dall’interno? «Sicuramente meglio di quanto immaginassi, soprattutto grazie all’estrema semplicità dei miei nuovi compagni di squadra. Però mi sono anche reso conto che l’obbligo di primeggiare spesso genera tensioni che alla lunga potrebbero portare a un inevitabile stress».
Quali sono le motivazioni prioritarie per le quali vorresti vivere il mondo del calcio dal di dentro? «Innanzitutto viene la passione per il gioco, smisurata e sincera, poi il piacere di avere una certa notorietà, quindi il denaro e infine la possibilità di conoscere il mondo da vicino».
I sacrifici sin qui fatti paiono al momento ripagati. Ma che effetto fa lasciare a quindici anni la casa, la famiglia e la propria città per inseguire altrove quella che per molti è purtroppo soltanto una chimera? «In effetti, al mio arrivo a Torino mi sono sentito parecchio spaesato, anche perché quell’avventura non coinvolgeva alcun altro compagno di squadra o compaesano. Ma per fortuna qui ho subito fraternizzato con Jonathan Binotto, che conoscevo solo di vista: ebbene, da tre anni in pensione viviamo nella stessa camera e siamo diventati inseparabili e non c’è problema o confidenza che non coinvolga entrambi. Devo dire che questo rapporto mi è servito tantissimo. Consentendomi di superare ogni impasse, per cui il mio augurio più sincero è che presto anche Jonathan possa dividere con me nuove gioie: le qualità certo non gli mancano, e di questo se ne sono già accorti sia Trapattoni che il selezionatore della Nazionale di categoria. Quindi basta aspettare: negli ultimi anni la mia Juve ha dimostrato a più riprese di voler contare su noi giovani. I vari Micillo, Giampaolo, Serena, Di Muri e Zanini non sono certo passati qui per caso».

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