sabato 27 aprile 2013

Paulo AMARAL


Gunnar Gren, poi Parola nella stagione 1961-62 – si legge su “La storia della Juventus” di Perucca, Romeo e Colombero –finita con la Juventus al dodicesimo posto. Si impone un cambio tecnico: Boniperti va a Rio e convince (facilmente) l’allenatore del Vasco de Gama, che era già stato al Botafogo, a venire a Torino.
Paulo Amaral, fisico da marine, uno sfregio in viso che ne accentuava l’aspetto da duro (mai ha voluto raccontare il perché di quella cicatrice), una moglie esuberante (la signora Florinda) che si piccava di sapere di football, portava un «credo» che sorprendeva chi pensava al Brasile come a una terra calcistica di giocolieri e fantasisti. Amaral parlava invece di lavoro, di impiego, di professionalità e di abnegazione. E lavorava anche lui sul campo. Per seguire meglio certi esercizi dei suoi, saliva con balzi da gatto sulla porta, per sedersi sull’incrocio dei pali. Al Botafogo aveva avuto in cura campioni quali Garrincha e Nilton Santos, Zagalo e Didì, ma aveva anche preparato i pugili dilettanti del club.
I bianconeri imparavano presto a faticare, con Amaral. E la Juve finì il campionato ‘62-63 al secondo posto, e, pure se il distacco dall’Inter campione era sensibile, il passo avanti rispetto al recente passato era da applausi, per allenatore e giocatori. Naturalmente, dopo il secondo posto l’ambiente chiedeva la vittoria. Ma la stagione ‘63-64 non rispettava le attese. Amaral il duro aveva incomprensioni con alcuni atleti, soprattutto con quelli che non amavano il suo tipo di preparazione. Quando alcuni giornalisti cominciarono a chiamarlo «il ginnasiarca» in senso ironico, si capì che Amaral non sarebbe durato molto. L’uomo di Rio non finì neppure il campionato. Gli subentrò Eraldo Monzeglio che riscaldò la panchina per Heriberto Herrera, mentre la squadra finiva il campionato al quarto posto alla pari con la Fiorentina.
Il distacco dalla Juve fu brusco. Vittorio Pozzo, su «La Stampa» diede al partente Amaral un saluto che valse da riconoscimento alle qualità di un uomo, e di un tecnico, magari difficile da capire, ma di sicuro valore: «Saluto in Amaral una persona seria, una persona a modo. Faceva quello che riteneva fosse suo dovere di fare, con grande impegno, con un senso di onestà profondo, con uno spirito che aveva in sé qualche cosa di religioso quasi. Io non andavo d’accordo con qualcuno dei principi tecnici che egli professava. Il che non vuole dire proprio nulla. Nel giuoco del calcio, ogni linea direttiva ed ogni particolare rappresenta una materia opinabile. Lui aveva le sue idee, ed io avevo le mie, ma io rispettavo ed ammiravo l’uomo che, nella applicazione delle sue, metteva tanta abnegazione e tanta dirittura. Era venuto in Italia con certe teorie piantate fisse, come dei chiodi nel cranio. Non sapeva che, nel paese nostro, molte cose sono cambiate in questi ultimi anni, anche e specialmente nel giuoco della palla rotonda. In tema organizzativo, non poteva soffrire, per esempio, che subito dopo di un incontro i giornalisti invadessero gli spogliatoi e volessero che tutto quello che stava nell’animo e nel cervello dell’allenatore e dei giocatori si riversasse sulle cartelle che essi dovevano scrivere. In parte, anche in gran parte, io avendo vissuto a lungo nei panni suoi, aderivo a questi suoi principi. Quante volte mi ero trovato, dopo di una partita perduta, a dire ai giocatori: ‘Ragazzi, non ne parliamo più, per oggi, non diciamo parole che domani dovremo forse dichiararci pentiti di aver detto. Ne riparleremo domani, fra di noi soli’. Quante situazioni delicate nascono, durante un incontro movimentato, che hanno bisogno di riservatezza assoluta perché non degenerino in crisi di squadra o di società. Ora il silenzio viene definito come un impedimento al lavoro da parte di certuni. Il silenzio fa dei nemici! Certi atteggiamenti e certe sfumature a parte, una piccola solidarietà intima, io la sentivo per queste linee direttive. Nell’accettare senza discussioni l’ordine che lo destituiva dalla carica, Amaral ha dato prova di una serenità e di una correttezza, che ha meravigliato tante persone che il Brasile ed i suoi abitanti conoscono soltanto superficialmente. Ha accettato, non ha recriminato. È uscito anzi in una frase che riflette la situazione: ‘Noi allenatori, dobbiamo sempre aspettarcele, certe decisioni’. Proprio così. Ed a me viene in mente Quante volte nell’accomiatarmi dai giocatori che avevano diviso con me soddisfazioni e fatiche, dicevo loro: ‘Ragazzi, non lasciatevi attrarre dal miraggio di diventare un giorno allenatori d’una squadra. È la peggiore delle professioni, perché ognuno si crederà allora in diritto di comandarvi. Cercatevi un mestiere borghese, mentre siete in tempo’. La situazione di Amaral era un po’ che maturava. Ora egli se ne va, perché certi problemi devono essere risolti. Ma vorrei che, andandosene, sappia che qualcuno che lo ha seguito da lontano, anche non sempre approvandolo, lo apprezza e lo stima. Era un uomo che camminava diritto. Vorrei fare mie le parole di un suo giocatore, Castano, che disse: ‘Una persona onesta come Amaral non la conoscerò mai più’».


VLADIMIRO CAMINITI
Con la specchiante vigoria del suo fisico faceva la ginnastica lui per i giocatori al campo «Combi», tra risatine e motteggi dell’arruffato sonnolento nume Sivori (che non si divertiva essendosi già divertito troppo). Amaral schierò la difesa con due stopper centrali, predicando la strategia del Brasile, gioco per l’attacco e non viceversa. Ebbe il merito di insegnare lavoro ai nostri divi in poltrona, i quali dicevano: sì mister, bene mister, ma se ne fregavano. Il gioco della squadra era difficile, come la vita di don Paulo angustiato dalla moglie nostalgica. Così fu sostituito da un allenatore passatista che telefonava a casa di Sivori e s’informava con prudenza: oggi, signor Sivori, con questa bell’arietta, viene a fare una corsettina al campo «Combi»? Al cancello del «Combi» un mattino fu appeso un cartello: chiuso per restauri.

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