sabato 27 aprile 2013

Ljubiša BROĆIĆ



Candido omone – scrive Caminiti – parla jugoslavo, ma è stato in Egitto e parla anche egiziano; in Libano e parla pure libanese; in Olanda e parla olandese; in Inghilterra e parla inglese. Parla diverse lingue ma si affatica a parlare italiano e ne riferisce le intenzioni l’umile Depetrini. È un tecnico modello, lancia Mattrel e Stacchini, ricostruisce Ferrario, Colombo, sa pungolare Charles, soprattutto sa sopportare Sivori. È sempre tranquillo e fidente nella sorte. Soltanto pretende che i giocatori si allenino. Sarà il suo imperdonabile errore. Pure al cadere degli anni cinquanta era proibito, categoricamente proibito, alla Juve fare gli allenamenti sul serio. Poteva essere tollerato soltanto l’allenatore lacché. Non era stato in fondo un po’ lacché l’ottimo Carcano dei fulgenti anni trenta? Un allenatore vale l’altro. Agnelli docet: l’allenatore non serve.


“TRE RE PER UNA SIGNORA” DI BERNARDI & NOVELLI
«Ljubiša Broćić, jugoslavo di Belgrado Un altro doktor, anche lui laureato come Puppo. Credo Fosse professore di educazione fisica».
Vigeva la moda o la mania dei tecnici slavi, in quel periodo. Bontà del calcio di quelle plaghe che, sotto forma di scontri fra nazionali, volle dire proprio nel 1957 un micidiale 6-1 per la Jugoslavia ai nostri danni. La partita fu giocata a Zagabria il 12 maggio, ossia il giorno in cui John Charles arrivò a Torino Fu la replica del sonorissimo 4-0 con il quale, due anni prima, ci avevano bastonati al Comunale torinese. «Esattamente. A Zagabria, quel giorno, c’era Boniperti in campo».
Era la Nazionale allenata da Alfredo Foni e composta in larga parte da giocatori della Fiorentina, con l’eccezione di Giampiero da Barengo e del portiere laziale Bob Lovati. Per noi segnò Cervato su rigore. «Boniperti vide le streghe con il loro capitano Milutinović».
Dimmi di Broćić. «Anche lui era un personaggio molto curioso. Si era proposto alla Juventus tramite una lettera indirizzata al commendator Remo Giordanetti, che è stato anche vicepresidente della società. Si era presentato snocciolando il suo curriculum, abbastanza impressionante: giocatore della Stella Rossa, una ventina di gare nella nazionale jugoslava, una laurea alla Scuola Superiore di Educazione Fisica di Belgrado, membro dell’Accademia dello Sport, poliglotta. Soprattutto, aveva allenato la Stella Rossa, vincendo due scudetti e tre coppe nazionali, e arrivò a guidare la stessa Jugoslavia fino al 1953. Poi aveva vagato per il mondo, allenando in Albania e al Cairo: qui si mise alla testa della Nazionale egiziana, portandola al successo nei Giochi del Mediterraneo. Finì successivamente a Beirut e infine in Olanda».
Un autentico zingaro del pallone. Da romanzo d’avventura. «Dall’Olanda, dove era l’allenatore del Psv Eindhoven, il club della Philips, scrisse dunque la sua letterina alla Juve, sostenendo che avrebbe contribuito a farne una grossa squadra E la Juventus, dopo avere preso informazioni, rispose “Bene, ben venga questa dottor Broćić”. Ma questa dottor Broćić non era probabilmente un tecnico molto illuminato. Ti cito un episodio che ha come protagonista il mio collega Angelo Caroli, che giocò nella Juve in quel periodo e si fregiò dello scudetto del 1960-61 disputando qualche partita».
Che cosa ti ha raccontato Caroli? «Tieni presente che Angelo era stato prima centravanti, successivamente si trasformò in terzino. Fatto sta che un giorno Broćić gli disse: “Senta, lei si metta a centrocampo. Ha presente Schiaffino? Sì? Benissimo: allora mi giochi alla Schiaffino”. Però tutto poteva dire a Caroli meno che s’improvvisasse, sia pure in sedicesimo, nelle vesti di uno Schiaffino, dato che aveva ben altre caratteristiche. E questa per farti un esempio del tipo che era Broćić. Con quella Juventus, ad ogni modo, con quegli uomini, con quel trio, credo che verosimilmente chiunque avrebbe potuto allenarla ottenendo dei buoni risultati».
Broćić, comunque, avrà pure avuto dei meriti, se non altro per il suo palmares. «Fu sicuramente un buon preparatore, fatto non secondario visto che la parte fisica è molto importante, e la forma, poi, è quella che sostiene la classe. Almeno sotto questo aspetto, va dato merito al dottor Broćić».

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