lunedì 1 maggio 2023

Angelo ALESSIO


A un clima di moderata soddisfazione per la ritrovata vittoria esterna – scrive Federica Bosco su “Hurrà Juventus” del gennaio 1988 –, ottenuta in terra toscana, si contrappone un senso d’incredulità e di sgomento per l’evolversi del caso Sanguin; un «petardo» che è scoppiato sul campionato italiano riportando alla luce antichi dibattiti sulla validità del regolamento tutt’ora vigente. In questa altalena di eventi che condizionano il gioco pur estraniandosi dalla sua originaria natura, si può scorgere una ricerca compatta e uniforme del significato vero del campionato: ossia una risposta concreta allo strapotere del Napoli.
Nel fervido sincronismo degli eventi e necessario, dunque, porre in rilievo le nuove realtà italiane della domenica calcistica, sia per allentare la tensione che va ad accumularsi in maniera eccessiva, che per dare una valvola di sfogo e di sicurezza alla credibilità del nostro calcio in proiezione futura. Ecco dunque comprensibile il desiderio di mettere in primo piano i nomi e i volti di coloro che faranno il calcio di domani, per dare una garanzia di continuità e di successo agli individui che oggi nutrono un certo scetticismo sulla qualità dei campioni nostrani.
Proprio alla luce di questa realtà è perciò affascinante conoscere il percorso compiuto da un ragazzo del sud per arrivare a essere una scoperta prima, e una conferma poi del calcio italiano...
– Da Avellino a Torino, cosa è cambiato nella tua vita professionale e privata?
«Nella sfera personale non ho avvertito alcun mutamento sostanziale; credo di essere riuscito a mantenere intatto il mio carattere, nonostante alcune circostanze avessero un potenziale in grado di turbare il mio modo di vivere. In relazione all’attività lavorativa, invece, ho riscontrato una diversa mole di responsabilità; infatti in Campania si lottava per non retrocedere, per cui il dovere di ogni calciatore si esauriva nel momento che si realizzava la salvezza della squadra. Nella Juventus gli obiettivi da raggiungere sono molteplici, quindi la tensione agonistica è un fattore costante nell’intero arco della stagione».
– Ognuno di noi quando si allontana dalla propria terra porta nel cuore un particolare; tu cosa rimpiangi del tuo paesino?
«Ricordo con affetto e un pizzico di nostalgia gli abitanti di Pestum, il luogo natale a pochi chilometri da Salerno, che mi sono sempre stati vicini con immenso calore. La stessa cordialità e disponibilità mi è stata offerta da Avellino; anche nel capoluogo irpino ho avuto modo di apprezzare lo sforzo della gente per alleviare il vuoto lasciato dalla lontananza, nel mio caso relativa, della famiglia. A questo proposito voglio sottolineare come sia vantaggioso l’essere vicino casa per un ragazzo che svolge la professione di calciatore, la tranquillità che solo l’atmosfera famigliare riesce a dare è determinante per riuscire ad affermarsi».
– Com’è sbocciata in te la passione calcistica?
«Non ricordo con precisione la circostanza che mi ha fatto conoscere questo sport; sin da bambino infatti guardavo con entusiasmo le partite di pallone alla televisione e apprezzavo in maniera particolare Gigi Riva. Perciò per imitare il mio campione mi dilettavo prima con i miei fratelli, e poi nella squadretta del paese; fino ad arrivare, dopo diversi anni di gavetta, al palcoscenico più ambito da un calciatore: la serie “A”».
– Chi è stato il tuo talent-scout?
«Nel mio trascorso calcistico c’è un uomo a cui devo tutto; un personaggio che, nonostante una menomazione fisica, ha saputo infondermi la voglia e il coraggio di tentare per arrivare fino in vetta. E oggi che ho raggiunto l’apoteosi del calcio non posso che ricordare Salvatore Apadula con grande affetto e gratitudine».
– Quando hai saputo che saresti arrivato alla Juventus?
«Sono venuto a conoscenza dell’intenzione della società di cedermi alla squadra bianconera solo al termine della stagione scorsa; quindi nel mese di giugno sono venuto a Torino e ho concretizzato quanto si ventilava in precedenza».
– Com’è stato l’impatto con la società bianconera?
«Negli anni passati avevo avuto modo di sentir parlare di stile Juventus, ma poiché la mia conoscenza era occasionale e superficiale ero piuttosto scettico su ciò che si asseriva negli ambienti calcistici. Oggi le circostanze mi hanno portato proprio alla squadra zebrata e non posso che dare atto a quanto si sosteneva; infatti la grandezza della Juventus deriva proprio dalla sua abilita di curare ogni dettaglio nei minimi particolari, nulla viene tralasciato. Quindi è comprensibile il perché di tanti successi: alle spalle di una rosa di campioni, c’è un organico che sa programmare con parsimoniosa cura ogni più piccola contingenza».
– Che rapporto si è instaurato coi compagni di squadra?
«Anche tra i colleghi ho riscontrato molta disponibilità, non esiste rivalità tra i ragazzi; e di conseguenza il rendimento della squadra trae giovamento da questa favorevole circostanza. Io stesso ho legato con tutti gli atleti, dunque non posso che essere soddisfatto del mio repentino inserimento».
– C’è qualche giocatore che più di ogni altro ti ha aiutato a superare la fase d’ambientamento?
«A questo proposito vorrei ringraziare Sergio Brio, un personaggio grandissimo anche sotto il profilo umano, che ha saputo mettermi in rilievo la reale dimensione della Juventus».
– Non hai avvertito inizialmente un certo timore reverenziale nei confronti dei grandi campioni che indossano la maglia bianconera?
«Di primo acchito mi ha assalito la paura di non riuscire a reggere il paragone con giocatori dal calibro di Cabrini e Scirea, due atleti con un bagaglio di esperienze da far impallidire chiunque. Fortunatamente la sensazione suddetta è svanita in modo fulmineo non appena ho avuto la possibilità di conoscere i compagni, ragazzi eccezionali che mi hanno accolto con entusiasmo».
– Nella Juventus sei stato impiegato in diversi ruoli a seconda delle esigenze della società; ma qual è la tua posizione idonea sul campo?
«Ad Avellino svolgevo il compito di seconda punta; a Torino, per ora, ho riscoperto diverse mansioni, ma ciò non mi crea dei turbamenti in quanto nel calcio conta poter esprimere le proprie capacita. Inoltre il mio gioco è piuttosto duttile, per cui non ho avuto difficoltà di adattamento; in seguito avrò modo di trovare una collocazione definitiva».
– Hai sostituito per diverse domeniche l’infortunato Mauro e hai ricoperto il ruolo con autorevolezza; non pensi di meritare il posto da titolare?
«Nel momento in cui ho firmato il contratto con la Juventus ero consapevole del compito marginale che avrei dovuto recitare nella squadra! Ero a conoscenza del fatto che avrei dovuto andare in panchina per essere utilizzato solo nel momento in cui le circostanze lo rendevano necessario. Inoltre l’infortunio di un collega non è mai la condizione più idonea per conquistare uno spazio in squadra, anche se i complimenti che mi sono stati rivolti mi lusingano. Ora Massimo ha recuperato per cui, se io dovessi ritornare tra le riserve, non farei alcuna opposizione».
– Dopo le brillanti prestazioni con la Nazionale Olimpica non hai fatto un pensierino alla squadra di Vicini?
«Attualmente dedico le mie forze alla causa bianconera; quindi gli allenatori che selezionano i giocatori in prospettiva d’Italia ‘90 potranno giudicare le mie prestazioni e decidere di conseguenza nel modo più idoneo. Il sogno di ogni giovane calciatore è di poter indossare la maglia azzurra; personalmente non mi discosto da questa linea, per cui ho sempre un occhio di riguardo per la casacca italiana, nella speranza di poter realizzare, un giorno non troppo lontano, il mio desiderio».
– Cosa diresti al tecnico azzurro per convincerlo a inserirti nei quadri della Nazionale?
«In questa circostanza non penso che le parole possano servire, occorre dimostrare sul campo il proprio valore per catturare l’attenzione del C. T. azzurro».
– Cosa rappresenta per te il calcio?
«Per il sottoscritto il gioco del pallone esorbita dal significato originario di divertimento e salute. La disciplina sportiva ha assunto le dimensioni di un lavoro, perciò non posso che rispettare l’ambiente per quante soddisfazioni riesce a offrirmi e per il compenso materiale che scaturisce dalla mia professione».
– Hai riscontrato delle differenze nel modo d’interpretare il gioco del pallone nel sud e nella città da sempre capitale del calcio italiano?
«In relazione all’attività praticata sul campo posso dire che c’è una certa uniformità; il campionato si è equilibrato interessando non solo le metropoli del nord, ma anche i grossi agglomerati del meridione. Esiste invece un baratro a livello di risorse: scarse nei piccoli centri d’Italia insulare e nel mezzogiorno, e più prosperose nel settentrione. Tutto ciò contribuisce a dare un’ottica diversa di questo sport in centri come Avellino dove il calcio rappresenta l’unico divertimento della gente».
– I tifosi bianconeri sono conosciuti per il loro atteggiamento freddo e distaccato; hai riscontrato effettivamente un’aria poco calorosa nei vostri confronti?
«Non concordo pienamente con quanto viene attribuito al pubblico della Juventus, infatti penso che l’appellativo suddetto scaturisca da un senso di superiorità che è tipico di coloro che conoscono il sapore della vittoria con una certa consuetudine. Inoltre non bisogna confondere il silenzio con l’indifferenza: mai la squadra è stata abbandonata dai suoi sostenitori, e la testimonianza deriva proprio dalla presenza massiccia di folla negli stadi ogni qual volta si esibiscono i giocatori Zebrati. Quindi tutto ciò è un segnale tangibile di affetto della gente nei nostri confronti; il desiderio di acclamare è poi un fattore soggettivo che nasce dalla smania di una persona di dar sfogo o meno ai suoi sentimenti».
– In quale circostanza ricordi che il pubblico sia stato particolarmente vicino alla squadra?
«In questo scorcio di stagione posso citare la partita contro il Panathinaikos; dunque in situazioni non ottimali il tifo ci ha sorretto dimostrando attaccamento ai colori bianconeri».
– Parlaci un po’ della tua numerosa famiglia...
«La caratteristica più evidente della mia simpatica tribù è la confusione che accomuna undici fratelli! Certamente non tutto è oro ciò che luccica: dietro a tanto divertimento si nascondono anche parecchi problemi che, fortunatamente, abbiamo sempre risolto con l’aiuto dei nostri genitori. Mamma e papà ci hanno dato la possibilità di studiare e di avere un’infanzia serena e spensierata; da parte nostra non possiamo che essere riconoscenti di tutto l’amore che ci ha trasmesso, e in ogni momento ricambiamo le loro premure con tanto affetto».
– La passione per il calcio ha contagiato solo te, oppure ha fatto altre vittime in casa Alessio?
«Prima di me hanno tentato l’avventura sportiva altri due fratelli; ma non hanno creduto fino in fondo nelle loro possibilità e, alla prima situazione avversa, hanno gettato la spugna. Altri due più giovani non hanno proprio voluto conoscere il sapore del pallone, forse assuefatti dalla presenza di troppi calciatori in famiglia; quindi, per concludere la carrellata, il più piccolo gioca attualmente in una squadra interregionale per divertimento, senza prefiggersi particolari obiettivi».
– Tu hai anche delle sorelle, come vivono la realtà del fratello famoso? Sono tue tifose o per loro sei semplicemente Angelo?
«Non mi vedono come un personaggio, ma s’interessano alla mia attività e sono orgogliose del fatto che gioco in serie “A”. Inoltre una di loro è titolare in una squadra di calcio femminile, e si destreggia, in questo campo, meglio di molti ragazzi».
– Sei fidanzato?
«Sì».
– Come vi siete conosciuti?
«Ho incontrato Patrizia ad Avellino, la sua citta; mi è stata presentata da un amico e, frequentandola, ho iniziato ad amarla. Il nostro rapporto ha incontrato alcune difficoltà poiché, nel capoluogo irpino, una cittadina di sessantamila abitanti, gli sguardi erano rivolti in particolare a noi calciatori; per cui ogni qual volta andavamo in un locale con le fidanzate, venivamo assaliti dall’abbraccio affettuoso della folla».
– Sono in vista i fiori d’arancio?
«No... e per molti anni ancora!».
– Patrizia è una tua tifosa, segue il calcio?
«La mia ragazza è sempre stata una sostenitrice della Juventus; perciò, dal momento che gioco nella sua squadra preferita, è doppiamente felice di seguire la mia carriera».
– Quali caratteristiche deve avere la tua donna ideale?
«Non identifico il mio modello femminile in un nome o in un volto, ciò che è indispensabile in una ragazza che ha un rapporto con un atleta è la pazienza. Troppo spesso occorre rinunciare ai divertimenti, sostenere una relazione a parecchi chilometri di distanza e non poter aiutare la partner nei momenti di bisogno: fattori, questi, che accomunano la maggior parte dei calciatori; quindi è necessaria tanta comprensione per superare gli innumerevoli sacrifici».
– Preferisci le more o le bionde?
«Senza ombra di dubbio la mia scelta ricade sulle ragazze dai capelli scuri!».
– Quali sono i tuoi hobbies?
«Tra i miei interessi extra calcistici annovero la pesca, il cinema, il tennis e soprattutto la compagnia di un buon libro.».
– Come trascorri le tue giornate quando non sei impegnato con gli allenamenti e le partite?
«Le mie conoscenze torinesi sono piuttosto circoscritte al benzinaio, al portiere e al barista sotto casa; perciò ho parecchie difficoltà a impegnare le ore libere. Quindi la mia routine è molto tenue: allenamento, televisione e ristorante…».
– Dicono che le responsabilità che gravano su un giovane atleta maturino anzitempo il ragazzo; ti senti più adulto rispetto ai tuoi coetanei?
«Provengo da una famiglia numerosa, per cui ho dovuto affrontare i problemi della vita con un certo margine d’anticipo rispetto gli altri bambini; in seguito il calcio ha definitivamente levigato il mio carattere, creandomi una personalità quando ancora molti miei coscritti erano assolti da ogni compito gravoso».
– Quali programmi apprezzi maggiormente in televisione?
«Mi piacciono i film, inoltre seguo con interesse le vicende che accadono nel mondo; quindi guardo con occhio attento il telegiornale e leggo i quotidiani per conoscere più dettagliatamente gli episodi di cronaca. Infine mi sono fatto una cultura economica, per poter tutelare adeguatamente i miei interessi».
– Cosa pensi dell’incontro tra Reagan e Gorbaciov che anima la politica internazionale?
«La pace mondiale è un aspetto su cui vale la pena soffermarsi e riflettere; l’intenzione di ridurre le potenze missilistiche è un segnale tangibile che mette in luce un desiderio unanime di tranquillità. Perciò non posso che essere soddisfatto dello sforzo compiuto per tutelare il mondo intero dallo scoppio di un ordigno nucleare».
– Oggi il calcio è diventato spettacolo e come tale impone una figura di calciatore più aperta alla stampa e al pubblico; cosa pensi del duplice ruolo di atleta e show-man che vede impegnati molti tuoi colleghi in programmi televisivi?
«Il giocatore moderno non fossilizza la sua mente sul rettangolo erboso; ma spazia in altri campi, si crea dei nuovi interessi. Perciò l’avere una seconda occupazione non è che la naturale conseguenza del fenomeno suddetto; e la professione televisiva non è estranea alla linea di concezione precedentemente enunciata, ma piuttosto deriva dal binomio che si è creato tra lo sport e lo spettacolo».
– Nel tuo caso è prematuro parlare di dopo calcio, però vorrei chiederti un parere su quello che sarà il vostro sport tra dieci anni. Pensi che nonostante gli allarmanti dati relativi a stadi meno affollati, l’amore che nutre il tifoso si conserverà intatto?
«Negli ultimi campionati si è scorto un calo di gente piuttosto preoccupante; sicuramente l’allarme rientrerà tra due anni, quando l’Italia sarà sede dei campionati mondiali. In seguito è difficile prevedere quale presa avrà il nostro sport sul pubblico, molto dipenderà dall’esito dei prossimi impegni internazionali; se le aspettative non saranno deluse, penso che si verificherà un’inversione di tendenza col conseguente aumento di spettatori».
– Qual è il più grande desiderio che vorresti realizzare?
«In campo professionale sogno una maglia azzurra; nella sfera privata vorrei trascorrere una vita tranquilla e spensierata... chiedo troppo?».
Il nostro protagonista, interessante talento degli anni ‘80, rappresenta il prototipo che ogni ragazzo del sud, almeno una volta nella vita pensa di emulare. L’emigrazione è un fenomeno che ha fatto una parte della storia italiana e anche alle soglie del Duemila è piuttosto attuale; certo nel mondo dello sport è paradossale parlare di trasferimenti in termini tanto denigratori e restrittivi, in quanto tutto il sistema calcistico è improntato su un vagabondaggio degli atleti. Benché i compensi e l’attività stessa ci impongano una diversa angolazione al fenomeno, la realtà per le giovani promesse cela un distacco dall’ambiente familiare non sempre facile da assorbire.  Dunque, in sintesi, occorre mettere in evidenza questo aspetto per comprendere non solo l’atleta, ma anche l’uomo, troppe volte trascurato per dar spazio al campione dei campi erbosi.

Alessio, come prevedibile, trova difficoltà a inserirsi nella squadra juventina. «Ero un ragazzo, venivo dalla provincia di Salerno, l’unica esperienza l’avevo maturata ad Avellino. Se non avessi trovato Brio e gli altri anziani a darmi una mano, probabilmente non ce l’avrei fatta. Con Sergio ho diviso la camera durante i ritiri: i suoi consigli sono stati preziosi. Mi hanno aiutato a maturare in fretta».
Grazie alla sua duttilità e alla predisposizione a giocare in qualsiasi zona del campo, Angelo rimane alla Juventus dal 1987 al 1992, salvo una piccola parentesi a Bologna, riuscendo a totalizzare 139 presenze e 21 gol, conditi con la conquista della Coppa Uefa e della Coppa Italia.
«Un calciatore fa i bilanci. La Juve è una grande società. Potevo restare, ero sotto contratto. Però in certi casi prevalgono altre considerazioni: vivacchiare o trovare altrove motivazioni più serie? L’offerta del Bari mi fece uscire dal tunnel: città importante, società con voglia di riemergere, possibilità per me di non fare la comparsa e, ancora, avvicinamento a casa. Quest’ultimo particolare non è trascurabile: gli affetti sono una cosa seria. La Juve? Un’esperienza importante. La stagione più bella? Quella con Zoff. Arrivammo anche terzi in campionato. Zoff mi è rimasto nel cuore, è un grande allenatore. Non parla? E un freddo? Non comunica? Tutte balle. Semmai parla poco. È uno di quegli uomini che non si sprecano in chiacchiere. Dice le cose giuste, essenziali. Quando lo conosci a fondo, apprezzi l’uomo. Un uomo severo, ma profondamente buono».

SIMONE LO GIUDICE, DA ILPOSTICIPO.IT DEL 7 MAGGIO 2021
Capaccio Paestum, il Tirreno che fa rumore e oltre quella distesa azzurra un mito sardo e lontano: Gigi Riva. Storie di Anni ‘70 in Campania tra sogni, palloni che rotolano sulla spiaggia e impronte lasciate sulla sabbia, segno della fatica e della passione.  Angelo Alessio ha cominciato giocando coi suoi fratelli, poi è arrivata la chiamata dell’Avellino: una finestra sulla Serie A, prima del grande salto a Torino sponda Juve. Proprio lì, dove nel 1991 è arrivato un altro ragazzo del sud, Antonio Conte da Lecce, che con Angelo Alessio ha condiviso subito il campo e vent’anni dopo la panchina. Con loro è rinato il mito Juve dopo gli anni amari di Calciopoli e sono ritornati a Torino gli scudetti, tre di fila prima dell’addio improvviso nell’estate 2014. Sono passati sette anni da allora e oggi Angelo corre da solo, ma non dimentica ciò che è stato. E dopo quella Juve è pronto a vivere una nuova grande avventura.
– Angelo, la sua ultima esperienza è stata in Scozia al Kilmarnock: come è andata?
«La considero una buona esperienza, anche se sono stato esonerato da quinto in classifica. Eravamo terzi a ottobre, avevo ricevuto anche il premio come migliore allenatore del mese, poi a metà dicembre dopo due sconfitte mi hanno esonerato. Con lo stupore dei tifosi che oggi mi mandano ancora messaggi di stima. Hanno chiuso all’ottavo posto, poi il campionato è stato sospeso quando è scoppiato il Covid, non si sono giocati i playout. Quest’anno sono partiti male e sono penultimi. Non ho accettato come è finita. Avevo portato con me anche due ragazzi della Juve. Mi hanno mandato via prima della finestra di mercato. Dopo il mio esonero la squadra è stata affidata al secondo Alex Dyer con Massimo Donati vice, ma i risultati sono stati deludenti».
– L’esperienza con Conte al Chelsea l’ha spinta a riscegliere il nord d’Europa? C’è qualcosa che dobbiamo imparare da loro?
«Sì, anche se il campionato scozzese è tutta un’altra storia. Soltanto Celtic e Rangers hanno potenza economica e 60mila spettatori. Gli altri club raccolgono le briciole. Ricordo la grande disponibilità dei calciatori e il loro spirito. È un calcio verticale, che si appoggia alla prima punta, molto alta di solito: così giocano quasi tutti, a parte Celtic e Rangers che hanno calciatori importanti. Ci sono spizzate e sportellate alla vecchia maniera. Non si sentono mai vinti, lottano fino alla fine, hanno uno spirito battagliero. L’intensità del gioco è alta, anche perché gli arbitri fischiano poco. Kilmarnock fa 45mila abitanti, è una città tranquilla. Mi fa molto piacere aver lasciato un buon ricordo».
– Lei da ragazzo è cresciuto in Campania: quale è stato il suo percorso nel calcio? Aveva un mito da ragazzo?
«Sono cresciuto nella squadra del mio paese, il Poseidon, a Capaccio Paestum. A 17 anni sono passato al Solofra: due osservatori mi hanno visto e mi hanno portato all’Avellino che in quegli anni giocava in Serie A. Il mio mito era Gigi Riva, sono cresciuto con le sue prodezze. Mi sono avvicinato al calcio così, giocavo coi miei fratelli. Sono nato attaccante. Dopo il primo anno alla Juve è iniziata la mia metamorfosi: ho cominciato a giocare sulla fascia. Sono andato in prestito al Bologna. Quando sono tornato a Torino ho fatto l’ala destra e il centrocampista. Sono arrivato nella stagione 1987-88, la prima senza Platini. Rino Marchesi in panchina, Ian Rush e Michael Laudrup in campo. Poi sono andato via in prestito, quando sono tornato c’era Zoff allenatore. Quell’anno arrivarono Casiraghi e Schillaci, il russo Aleinikov. Dopo l’addio di Platini erano venute fuori Napoli, Milan e Inter. Siamo riusciti a ritagliarci uno spazio importante nel 1990: arrivammo terzi in campionato e vincemmo la Coppa Uefa e la Coppa Italia».
– Lei è stato allenato da Trapattoni alla Juve: ha qualche aneddoto?
«Il Trap viveva il calcio a 360°, studiava tantissimo. Poi aveva sempre la battuta pronta, a volte raccontava barzellette. È stato il mio quarto e ultimo allenatore alla Juve. L’anno prima del Trap avevo avuto Gigi Maifredi: con lui in panchina non siamo riusciti a qualificarci alle coppe, nonostante l’arrivo di tanti nuovi giocatori tra cui Roberto Baggio. È stato un anno difficile».
– Nel 1991 alla Juventus è arrivato anche Antonio Conte: quale era la sua qualità migliore?
«Era arrivato a novembre, c’era Trapattoni in panchina. Antonio era un giovane che si affacciava per la prima volta su un nuovo palcoscenico importante, si calò subito nella parte. Conte è stato sempre un ragazzo sveglio, recettivo, con voglia di fare e di imparare».
– Nel 1992 lei ha lasciato la Juve: che cosa ricorda degli anni successivi?
«Andai a Bari nello scambio con David Platt che passò alla Juve. Era una piazza importante. Speravamo di ritornare subito in A, ma così non è stato: ci siamo riusciti al secondo anno. Ho raggiunto il mio apice da calciatore a Torino sotto la guida di Zoff con cui vincemmo a sorpresa. Non avevamo una squadra di grossi nomi, ma si crearono un’alchimia e un’unione che ci portarono a risultati straordinari. Il calcio italiano era dominato dal Napoli di Maradona, dal Milan di Rijkaard, Gullit e van Basten, poi c’era l’Inter di Trapattoni che vinse lo scudetto nell’89».
– Quale è stato l’avversario più tosto che ha affrontato?
«Diego, i campioni del Milan, Matthäus dell’Inter: ogni squadra aveva i suoi stranieri ed erano quasi tutti calciatori di alto livello. Negli Anni ‘80 in Italia si giocava un bel calcio. Ho un bellissimo ricordo. Oggi tante squadre sono gestite da stranieri, allora c’erano presidenti italiani che erano prima tifosi e poi proprietari. Oggi sono coinvolti gruppi e fondi d’investimento: è totalmente diverso. Per giocarsela nel calcio di oggi bisogna fare le cose con programmazione e stare molto attenti ai conti. Alcune società sono anche quotate in Borsa».
– Come è nato nel 2010 il suo rapporto professionale con Conte? C’è qualcosa che vi accomuna?
«Siamo sempre rimasti in contatto, a Torino abbiamo amici in comune. L’ho incontrato l’anno in cui si è dimesso dall’Atalanta. Facemmo una chiacchierata e Antonio mi chiese se volevo seguirlo nella sua prossima avventura: ho accettato. Poi venne fuori il Siena e firmammo. Così è cominciato il nostro percorso insieme. È nato tutto un po’ per caso. Abbiamo due caratteri diversi: Conte ha un carattere forte, è energico, io sono più riflessivo. Siamo accomunati dalla stessa sensibilità nel capire certe situazioni. So cosa pensa Antonio quando non parla e viceversa».
– Avete ereditato la Juve dei settimi posti: quanto è stato difficile tornare a vincere?
«Abbiamo trovato una Juve fatta di uomini importanti. Antonio è stato bravo a formare quella squadra prendendo anche decisioni difficili. Scelse il gruppo su cui puntare. Arrivarono giocatori come Vidal e Pirlo. C’era una base forte, andava solo valorizzata. I calciatori avevano bisogno di una scintilla e di un allenatore come Conte che riuscisse a prenderli per mano e a fargli disputare una grande stagione».
– Quale è stato il momento più difficile delle vostre tre stagioni alla Juve?
«Nel 2014 quando abbiamo perso l’opportunità di giocare la finale di Europa League che si sarebbe giocata a Torino. Abbiamo pareggiato in casa col Benfica e siamo stati eliminati. Eravamo scesi in campo con tante aspettative, ma non siamo riusciti a centrare l’obiettivo. Quella sconfitta ha pesato. Però avevamo fatto registrare il record dei 102 punti in Serie A e avevamo vinto la Supercoppa italiana. C’era stata una crescita esponenziale. Lì è stata costruita la base per gli anni successivi con Allegri in panchina: quelli delle due finali Champions e delle altre vittorie in campionato e nelle coppe nazionali».
– Nell’estate 2014 avete detto addio alla Juve e siete andati in Nazionale.
«Non pensavamo di andare via da Torino. La Juve è il massimo per ogni calciatore, allenatore e collaboratore. È successo tutto velocemente. Avevamo iniziato il ritiro con la Juve, dopo due giorni andammo via per divergenza di vedute tra Antonio e la società. Poi firmammo con la Nazionale. Con l’Italia abbiamo fatto un percorso importante. È una realtà diversa rispetto a quella del club. Ci incontravamo una volta al mese, era difficile organizzare dei raduni. Però era qualcosa che Antonio aveva deciso di fare. Abbiamo preparato bene l’Europeo, abbiamo disputato un ottimo torneo in Francia al di là del valore effettivo della squadra. Siamo usciti contro la Germania».
– È più difficile lavorare con Agnelli o con Abramovich?
«Siamo stati bene con entrambi. Agnelli era quasi sempre con noi, Abramovich lo abbiamo visto poco. Andrea ricorda i presidenti degli Anni ‘80 perché vive il calcio a 360°, vuole vincere sempre, trasmette grande carica a tutti. La sua presenza è importantissima per questa società, spero che sia così anche in futuro».
– Angelo, che cosa si augura per il futuro?
«Quest’anno sarei potuto andare all’estero, ma per via del Covid e della quarantena è diventato tutto complicato. Vorrei avere un’opportunità qui in Italia. So che è difficile. Comunque potrei anche ritornare fuori: ho imparato un po’ d’inglese, mi consente di poter partire di nuovo».

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